mercoledì 24 novembre 2010

Questa riflessione di Patrizia Valduga è stata pubblicata su "La Repubblica delle donne" due anni fa, quando si cominciava a parlare dei "grembiulini" della Gelmini.
Ve la proponiamo in un momento in cui, archiviati i grembiulini, sono stati però messi in atto nella scuola molti cambiamenti che penalizzano chi ha minori risorse economiche e quindi, di fatto, ne limitano la possibilità di esercitare pienamente il diritto allo studio. Un momento in cui gli insegnanti sono stati fatti oggetto di un'intenzionale campagna denigratoria che li ha dipinti come incapaci e fannulloni. Un momento in cui riflettere sulla scuola e parlarne diventa una colpa. In cui sembra che i maggiori sforzi di molta TV, di molti giornali, di molti politici siano volti a far sì che la gente non si accolli questo sforzo, dipinto così inutile, che è cercare di pensare.

Se penso
Ho portato il grembiule per i miei tredici anni di scuola, quando serviva a proteggere i vestiti, non a nascondere le diverse estrazioni sociali, che restavano bene in evidenza in tutto il resto, dalle scarpe alle cartelle, alle merende. Quello che uniformava noi alunni non era l'uniforme, era l'insegnante, che sembrava non sapere niente delle nostre famiglie ma, se vedeva il figlio di un ricco borghese fare l'arrogante o lo sprezzante con il figlio di un operaio, provvedeva a interrogarli entrambi e a dimostrare a tutti che, almeno per quel giorno, il primo valeva meno del secondo. Per me sono solo gli insegnanti che contano, quando sanno insegnare a pensare.
Io li pagherei più di un amministratore delegato.